La Chiesa cattolica
e un'Italia svanita
di Ernesto Galli della Loggia
17 ottobre 2020
È scomparsa una parte del Paese di stampo aristocratico e borghese delle cui competenze la Santa Sede in vari modi si è a lungo potuta servire
Le ennesime disavventure, chiamiamole eufemisticamente così, delle finanze vaticane mettono in luce indirettamente un fatto importante: la scomparsa di una certa Italia cattolica di stampo aristocratico e borghese delle cui competenze fino a tempi non troppo lontani la Chiesa in vari modi si è servita, e che ha servito la Chiesa e le sorti del cattolicesimo all'insegna di un forte impegno etico e di un sostanziale disinteresse personale. Aveva, quell'Italia cattolica, le sue roccaforti soprattutto nel Lombardo-Veneto e negli Stati Pontifici (nelle antiche e meno antiche famiglie dei Gallarati Scotti, dei Casati, dei Valmarana, dei Falck, così come in non pochi ambienti borghesi delle professioni e della cultura), e benché la fede legasse tradizionalmente quell'Italia alla Santa Sede, all'indomani dell'Unità — essendo predominante nelle sue file un orientamento cattolico-liberale — essa non mancò di fornire importanti servigi anche al nuovo Stato. La Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi, ad esempio, fece ampio ricorso a non pochi dei suoi esponenti per una serie di incarichi importanti e generalmente con ottimi risultati. Vien fatto di pensare a tutto ciò quando si apprende dai giornali di come venivano abitualmente gestiti i cospicui fondi della Santa Sede da parte di prelati di ogni rango.
Tutti evidentemente digiunissimi di cose finanziarie (e alcuni senz'altro onesti, come io mi ostino a credere il cardinale Becciu), i quali per anni, come se niente fosse sono stati soliti affidare milioni e milioni a società con sede nei luoghi più sospetti, a personaggi tra i più improbabili, a banchieri di mezza tacca, a intermediari dal più che dubbio profilo, a tizi presentati da altri tizi, e così via. A una genia di figuri, insomma, che qualunque persona appena avvertita avrebbe messo alla porta all'istante guardandosi bene dall'affidargli sia pure un centesimo. Figuri che invece in Vaticano sembra che abbiano ricevuto ogni volta l'incarico di manovrare cifre da capogiro: com'è ovvio facendo regolarmente quello che qualsiasi persona ragionevole si sarebbe aspettata, e cioè che una parte di tali cifre restasse illecitamente nelle loro tasche. Che in alcuni dei mandanti in abito talare ci sia stata all'origine un'intenzione fraudolenta (affidarsi a degli imbroglioni per poter a propria volta imbrogliare e rubare) è più che possibile. Ma l'ingenuità, l'insipienza, e direi quasi la dabbenaggine nella scelta delle persone ai cui servigi rimettersi sembrano essere state così diffuse e costanti nel tempo da sfiorare l'inverosimile.
A petto di questa massa di imbroglioni di varia specie aggirantisi nei sacri palazzi come non ricordare, tanto per fare un nome la figura di un uomo come Bernardino Nogara? Ben pochi, credo, sanno chi fosse, ma proprio questo è forse il suo maggior titolo di gloria. Bernardino Nogara — proveniente da una famiglia del Comasco di ben dodici figli, di radicate tradizioni cattoliche — dopo una fortunata carriera nel mondo dell' industria e della finanza durante la quale ebbe modo anche di collaborare con Giolitti in importanti questioni di politica estera, fu colui al quale nel 1929 Pio XI conferì l'incarico con pieni poteri di riorganizzare le finanze vaticane. Che oltre comprendere l'Obolo di san Pietro proprio in quel 1929 si erano arricchite dell'astronomica cifra conferita ad esse dallo Stato italiano dopo i Patti Lateranensi. Ebbene, Nogara mise ordine, scansò pericoli, investì con oculatezza e lungimiranza, amministrò con la massima onestà, e al termine di venticinque anni di servizio lasciò la Santa Sede in condizioni di floridezza senza pari.
Nogara è solo un esempio che i fatti di questi giorni richiamano. Un esempio di quell'Italia cattolica di stampo aristocratico e borghese di cui dicevo all'inizio, la quale a livello di parrocchia come di diocesi e infine in Vaticano per lungo tempo affiancò in molti modi la Chiesa, e su cui la Chiesa sapeva di poter contare invece dei loschi sconosciuti a cui da troppo tempo si è abituata a far ricorso. Un'Italia che oggi appare scomparsa o lo è davvero. In parte perché probabilmente non è (o non si sente) più cattolica o perché i suoi figli hanno conosciuto il processo di secolarizzazione che ha conosciuto tutto il Paese. Ma in parte perché tanto al centro che alla periferia la Chiesa ha ritenuto di fare a meno di lei. Attuando una scelta dietro la quale è facile scorgere l'effetto di due processi concomitanti.
Il primo è stato l'atteggiamento diffusosi nella Chiesa dopo il Concilio. Un atteggiamento orientato comunque al rinnovamento in quanto tale, all'uscita dai vecchi schemi, al ripudio di tutte le antiche abitudini. Soprattutto volto ad allontanare da sé ogni sospetto di vicinanza al potere, di prossimità alle classi dominanti invece che agli «ultimi». Prima o poi tutto ciò che sapeva di tradizione e apparisse democraticamente ambiguo è stato così messo da parte. Non meraviglia che in questa atmosfera utilizzare i servigi di un antico nobiluomo o le competenze di un ricco professionista conosciuti per la loro fede preconciliare e la loro posizione sociale eminente abbia finito per sembrare quanto mai sconveniente e inopportuno. E infatti da allora ogni rapporto tra la Chiesa e figure sociali di questo tipo è venuto sostanzialmente meno.
Il secondo processo è stata l'internazionalizzazione del papato e insieme della Curia, avvenuto nell'ultimo mezzo secolo dopo l'elezione di Wojtyla: prodotto e accompagnato dalla diffusione nell'opinione pubblica cattolica mondiale e sempre più nello stesso ambiente papale da un tacito ma forte pregiudizio antitaliano.
L'effetto combinato di tutto ciò è stato a partire dagli anni 70 la progressiva internazionalizzazione anche della gestione delle finanze vaticane, il cui simbolo può essere considerato il ruolo ultraventennale esercitato da un uomo come il vescovo lituano-americano Paul Marcinkus. Un indirizzo, come si sa, fin dall'inizio all'insegna di legami più che sospetti con ambienti finanziari mondiali dalla grigissima reputazione quando non dediti a vere e proprie attività criminali. Tranne brevi parentesi da trent'anni tutto procede su questa strada, con il puntuale corredo di manigoldi, scandali e ruberie. La mancanza di vere competenze proprie di carattere extrareligioso, e al tempo stesso l'impossibilità di contare sulle competenze di una società civile cattolica ormai inesistente o lontana, condannano non solo la gestione finanziaria della Santa Sede ma più in generale tutti i suoi rapporti con il «secolo» a vivere pericolosamente, sempre sull'orlo della truffa o dell'illegalità o, quando va bene, della più sconfortante goffaggine.
17 ottobre 2020, 23:02 - modifica il 17 ottobre 2020 | 23:03
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